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 Dicono che la morte sciolga

ogni cosa, tranne 

i pensieri che rimarranno in eterno, tramandati, raccontati, scritti,

ma restano.

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Giù le mani dal Tibet

novembre 2006

Lo scorso 16 ottobre, i telegiornali delle maggiori testate mondiali, proponevano in prima serata alcuni fotogrammi

di un panorama innevato montano, diviso al centro da una minuscola fila di puntini scuri. D’un tratto il primo puntino pareva arrestarsi e raccogliersi, verso il suolo, in un puntino ancor più piccolo, poi un altro poco più in dietro ed un altro ancora. La percezione era quella di un vecchio video-games, del tipo “space invaders” il cui scopo era quello di arrestare con un cannoncino, alieni che tentavano di invadere la terra. La tragica ed assurda realtà era che alcuni soldati cinesi stavano uccidendo delle persone in transito presso il Passo Nangpa-La, in Tibet, nel tentativo di uscire dal proprio paese sperando di raggiungere il Nepal o l’India traversando i valichi Himalayani fino all’auspicata libertà.. Il tragico filmato fu girato da un cameraman rumeno presente al campo base sull’Everest utilizzato da una spedizione internazionale di alpinisti. Il bilancio sembrava essere di sette vittime, mai confermato. Il centro per i diritti umani ha parlato dell’uccisione di una giovane monaca, Kelsang Namdrol, di diciassette anni ed il ferimento del ventenne Kunsang Namgyal. Trenta tibetani, dei settantuno in fuga, sono stati arrestati dalle autorità cinesi. Tra gli sventurati ci sono quattordici bambini, il più piccolo ha soli cinque anni. Quarantuno hanno raggiunto Kathmandu e sono ora sotto l’egida dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Coercizioni simili vengono perpetrate ai danni della popolazione tibetana giornalmente. Tra i fatti più clamorosi ricordiamo il sequestro del piccolo Gedhun Choekyi Nyima di soli sei anni e della sua famiglia da parte del governo cinese. Per i tibetani, il piccolo rapito rappresenta la seconda personalità più importante del Tibet cioè il Panchen (grande studioso) Lama(maestro spirituale). Nel 1996 il governo cinese ha dichiarato di detenere il Panchen Lama in “custodia preventiva”. In sostituzione i cinesi hanno propinato ai tibetani un altro ragazzo, Gyaltsen Norbu, il quale studia a Pechino controllato a vista dalle autorità cinesi. Il prossimo 25 aprile, il Panchen Lama compirà diciassette anni ma di lui non sappiamo più nulla. La Cina sta distruggendo tutto ciò che rappresenta l’identità tibetana, dalla bandiera ai monumenti religiosi. Le donne vengono brutalmente sterilizzate e le gravide le fanno abortire. Gli uomini vengono messi in carcere solo per aver detto “lunga vita al Dalai Lama” o solo per conservarne un’immagine innocua. La vita in carcere è fatta di torture, bastonate ed umiliazioni. Il cibo viene fornito solo lo stretto necessario per tenere in vita i malcapitati quel tanto che basta ad infierire nuove torture. Raccontando questi eventi ai nostri giorni ho l’impressione di scrivere un tragico romanzo ambientato nei tempi più bui dell’umanità. In questo momento in cui sto scrivendo questo articolo e voi lo state leggendo si stanno ancora consumando violenze ai danni di un popolo la cui unica arma è la non violenza. La magistratura irachena sta condannando alla pena capitale Saddam Hussein per i crimini commessi anche a danno della popolazione curda, ma chi condannerà i cinesi per avere ucciso un milione e mezzo di tibetani?

La comunità tibetana, in Italia, è ridotta a poco più di un centinaio di persone. Abbiamo raggiunto a Lonigo la signora Sonam Dolma Yongshar alla quale abbiamo chiesto di raccontarci brevemente la sua storia di profuga.

Sonam, ci racconta brevemente la sua storia?

“ Mia madre, in cinta di me, partì da Rongshar a piedi per uscire dal Tibet raggiungendo un campo profughi in Nepal organizzato dalla Croce Rossa Internazionale. Ora vive a Katmandu assieme ad alcuni miei fratelli mentre altri vivono in India. Oggi un mio fratello lavora per il governo tibetano in esilio come segretario diretto del Primo Ministro occupandosi del Ministero dell’Interno a Dharamsala.

Quando ha incontrato per la prima volta il Dalai Lama?

Ero in un villaggio di bambini che si chiamava Tibetan Childern’s Village. Il Dalai Lama risiede ancora oggi a pochi passi dal villaggio e spesso venivano organizzati degli incontri. Oggi è molto più difficile il contatto per ragioni di sicurezza.

Un giorno il Reggente dovrà, per un ciclo naturale, cercare per il Tibet il nuovo Dalai Lama.

Non sarà facile. Che ne pensa?

I cinesi faranno di tutto per impedirlo. Una delle ultime dichiarazioni di Sua Santità è che il nuovo Lama nascerà libero e non in un paese occupato. Non c’è scritto da nessuna parte che dovrà tassativamente nascere in Tibet.

Conosce qualche testimonianza di violenza impartita dai cinesi?

Alcuni rappresentanti della comunità tibetana in Svizzera hanno raccontato di avere subito elettroshock, bastonate a sangue e torture con strumenti rudimentali. Stiamo vivendo un olocausto. La Comunità Internazionale sembra impotente.

Da quanto tempo non vede il suo paese?

Non l’ho mai visto, sono nata a pochi chilometri dal confine. Ora sto organizzando una comitiva con amici per andarci. Non sarà facile ottenere il visto. Le regole sono ferree, soprattutto per chi, come me, è tibetana. Non potrò portare la mia bandiera o tenere un’immagine del Dalai Lama, non potrò parlare di politica e dovrò visitare solo i posti che le autorità di Pechino mi concederanno.