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Mobbing: il male silente del lavoro

dicembre 2007

Persecuzioni psicologiche, mortificazioni morali, emarginazioni mirate, demansionamenti ingiustificati sono fenomeni che si manifestano sempre più frequentemente sul posto di lavoro. Una piaga che va diffondendosi in modo sempre più importante, soprattutto perché non esiste una normativa giuridica chiara a tutela delle vittime che si trovano ad affrontare un problema difficile. Una zona franca del crimine astuto e calcolato. A monte di tali comportamenti disdicevoli, una cattiva gestione aziendale, un malfunzionamento della struttura e dei suoi dirigenti, agevolato certamente da fenomeni di trasformazione incontrollata e repentina del mondo del lavoro come la globalizzazione, la recessione, l’evoluzione tecnologica, la spietata concorrenza, il motivato timore del licenziamento e la conseguente difficoltà di reinserimento che si amplifica esponenzialmente con l’avanzare dell’età e non ultimo il vizietto di qualche dirigente che si comporta con il dipendente preso di mira come il gatto con il topo, individuando in lui i punti deboli che potrebbero essere semplicemente una famiglia da mantenere oppure un mutuo da pagare utilizzando questo ricatto morale per perpetrare angherie che vengono obbligatoriamente accettate con forzata sudditanza. Il mobbing può essere praticato dai colleghi “mobbing orizzontale”, dai dirigenti “mobbing verticale” oppure dai vertici dell’azienda, chiamato “bossing”. I sociologi si sono prodigati in ogni direzione per definire nel modo più corretto ed appropriato questa patologia legata ai luoghi di lavoro. L’etologo Konrad Lorenz nel 1982 faceva riferimento al comportamento di alcune specie di uccelli che allontanavano un elemento indesiderato in un modo assolutamente aggressivo. Il termine mobbing, infatti, deriva dall’inglese to mob che significa aggressione di massa, di gruppo. Il sociologo Herald Ege, nel 1990 definiva il mobbing come “forma di terrore psicologico sul posto di lavoro”. Lo psicologo tedesco Hainz Leymann precisava che un’azione di mobbing per produrre effetti significativi su un soggetto occorrono minimo sei mesi. Per la Clinica del Lavoro di Milano almeno due anni. Il lato allarmante di questa situazione è che la parte lesa può solamente chiedere un risarcimento dei danni che viene riconosciuto come malattia professionale anche dall’INAIL, come accaduto nei casi dell’ILVA di Genova e Taranto. E’ un’assurdità. La malattia professionale è conseguenza causata dal lavoro che uno svolge. Il mobbing è cagionato volutamente da persone sul posto di lavoro. E’ diverso. L’INAIL ha accertato che il mobbing procura malattie psichiche e psicosomatiche di differente gravità comunque invalidanti. Una ricerca della Medicina del Lavoro ha stabilito che in Italia ci sono circa il 6% dei lavoratori vittime del mobbing. La funzione del mobbing è sempre distruttiva, si vuole portare un dipendente al licenziamento volontario e finché il legislatore non interviene producendo norme ad hoc che prevedano provvedimenti penali oltre che amministrativi, non ne verremo mai a capo. Queste persecuzioni inflitte sul posto di lavoro provocano la perdita dell’autostima, una sensazione di frustrazione ed impotenza con la personale messa in discussione delle proprie capacità. E’ un vero e proprio omicidio di identità che si consuma sotto gli occhi di tutti tra l’indifferenza generale. Una morte lenta causata da un male silente. Al mobbing si accompagna lo stress da lavoro che concorre a depositare un anomalo strato di grassi sul fegato come se il soggetto abusasse di grassi ed alcool pur seguendo un’alimentazione corretta, questo è stato dimostrato da una ricerca dell’Università di Palermo eseguita su 200 soggetti. Da questa fase alla malattia il passo è breve, possono infatti comparire una serie di alterazioni dell’equilibrio socioemotivo e psicofisiologico che se protratti nel tempo possono trasformarsi in malattie croniche ed irreversibili fino alla comparsa di tumori ed in alcuni casi disturbi psichiatrici. Tra i mobber, cioè coloro che cagionano il mobbing, esiste una categoria narcisista che è molto diffusa; si tratta di dirigenti che avendo passato un’infanzia difficile, sentono il bisogno di prendersi delle rivincite, dimostrare a tutti di essere qualcuno, avendo l’inconscia consapevolezza di non essere nessuno. Per loro ciò che conta è essere al centro di ogni cosa per prendersi tutti i meriti. non conta l’impegno dei subordinati verso l’azienda ma il rispetto che mostrano loro.